mercoledì 28 marzo 2012

Anche in periferia si combatte il dominio dei mafiosi; “CENTONOVE”23.3.2012

Augusto Cavadi

giovedì 15 marzo 2012

Il voto della Curia alla morale dei professori di religione,

Il voto in condotta ai docenti di religione ,“Repubblica – Palermo”11.3.2012
Il filosofo greco Zenone deve la celebrità all’aver inventato la dimostrazione per assurdo: partire da una premessa che non si condivide e mostrare che – se si arriva a conclusioni assurde - tale premessa era falsa. La vicenda della Curia arcivescovile di Palermo che, unica in Italia, chiede ai parroci un certificato di buona condotta per tutti i docenti di religione è un’interessante applicazione del metodo dialettico di Zenone. La premessa: lo Stato democratico deve farsi carico dell’educazione cattolica di tutti gli studenti di ogni ordine e grado (a meno che qualcuno non faccia esplicita richiesta di esonero). E’ una premessa logica, condivisibile? Pare che nessun ragionamento diretto riesca a dimostrarne l’insostenibilità: né la necessità di uno Stato sempre più laico a fronte di una società etnicamente e religiosamente sempre più pluralista né la necessità di concentrare le risorse finanziarie su insegnamenti di base destinati all’universalità degli alunni. L’alternativa a questo stato di cose irragionevole non sarebbe, ovviamente, l’eliminazione tout court delle tematiche religiose dai curricula scolastici. Si tratterebbe piuttosto di trasformare l’insegnamento della religione cattolica in insegnamento di storia delle religioni (al plurale) affidato a docenti che abbiano superato un concorso statale pubblico esattamente come i colleghi che insegnano storia della filosofia o matematica.
Ma se non è facile dimostrare direttamente l’insostenibilità della normativa attuale, la Curia palermitana si sta preoccupando di dare una mano preziosa, portandola alle estreme conseguenze logiche: sino a evidenziarne l’assurdità. Infatti non basta che l’insegnante di religione cattolica sia competente in teologia cattolica (pur ignorando, in ipotesi, le basi essenziali dell’islamismo o dell’induismo), deve essere anche praticamente in linea con le esigenze della morale ecclesiastica. I colleghi di religione, in questi anni, mi hanno ripetutamente confidato l’elenco dei requisiti etici che vengono loro richiesti. Devono brillare per puntualità nel lavoro e per spirito di cooperazione? Devono essere esenti da favoritismi in sede di scrutini finali? Devono mostrare particolare attenzione agli alunni meno favoriti intellettualmente o socialmente? Devono esercitare senso critico nei riguardi delle eventuali malefatte di politici corrotti? Devono testimoniare netta distanza dalla mentalità e dalla prassi mafiosa? Devono manifestare in parole e opere la sobrietà nell’uso delle ricchezze e la bellezza della condivisione con gli sfruttati della società ? Niente di tutto questo. Né di altri principi tipicamente evangelici. Essi sinora sono stati ‘monitorati’ sulla base di altri criteri (più o meno opportuni ma che certamente non si trovano nel messaggio originario evangelico né nel solco della grande tradizione della santità cristiana): se si è eterosessuali o omosessuali; se si vive da sposati, separati, divorziati o conviventi; se si frequentano più o meno noiose attività parrocchiali; se si partecipa o meno a movimenti di riforma della chiesa cattolica; se si appartiene o meno a gruppi di ricerca religiosa di stampo orientale; se si esprimono pubblicamente, sulla fecondazione artificiale o sull’eutanasia, idee in contrasto con la dottrina del papa e dei vescovi…
Il quadro complessivo è tre volte paradossale. Infatti porta ad avere insegnanti di religione allineati e coperti con le direttive di un organo istituzionale (la Chiesa) diverso da chi li stipendia (lo Stato). Quando qualche docente non si sente in sintonia con il magistero ufficiale - per esempio perché convive con un compagno dell’altro sesso o del proprio – deve imparare a camuffarsi e ad attivare strategie ipocrite di mascheramento. Qualora, infine, né si è sinceramente fedeli alle direttive vaticane né si accetta di vivere clandestinamente, si può fare tranquillamente outing: tanto, da alcuni anni in qua, chi perde l’autorizzazione ecclesiastica ad insegnare religione cattolica, purché abbia una laurea di riserva, ha diritto di restare nella scuola come titolare di altra cattedra. Niente male! Sino a due secoli fa la scomunica comportava il rogo in piazza: oggi si rischia soltanto la condanna di fare il professore a vita.
Augusto Cavadi.

lunedì 30 gennaio 2012

Un’occasione perduta

                                                                    
Se l’opinione pubblica non fosse giustamente concentrata in questi giorni nel seguire gli sviluppi di una crisi economica internazionale che non ha precedenti dal ’29 ad oggi, probabilmente altra risonanza avrebbero avuto i fatti che si stanno consumando in Val di Susa. In quei luoghi un movimento di popolo, da cui restano sostanzialmente escluse le logiche di partito, fatto di gente di ogni condizione, operai, professionisti, famiglie, cerca in tutti i modi di manifestare il proprio dissenso nei confronti della scelta di costruire la linea ad alta velocità che dovrebbe collegare Torino a Lione. E se giusto in questi giorni Trenitalia non avesse decretato la soppressione delle linee ferroviarie a lunga percorrenza che collegano la Sicilia al Nord Italia, a decorrere dall’11 dicembre, forse non verrebbe la tentazione di porre in relazione questi due fatti apparentemente slegati e che riguardano luoghi dell’Italia tra loro tanto distanti;  ma l’inquietante e per certi versi grottesca sincronia che li accomuna impone una riflessione. Dunque, in un momento in cui si ritiene non necessario il collegamento tra città come Palermo o Catania da una parte e Milano, Torino o Venezia dall’altra, e si procede di conseguenza al “taglio” di quei “rami secchi”, determinando un’ulteriore allontanamento del Sud dal resto d’Italia, provocando come effetto “collaterale” un’ulteriore perdita di posti di lavoro (dopo la chiusura peraltro dello stabilimento Fiat di Termini Imerese), dall’altra parte d’Italia non ci si cura della volontà del popolo sovrano né dei costi in termini economici (figuriamoci ambientali) della costruzione della Tav, e pur di realizzare il sogno di un’Italia (del Nord) sempre più vicina all’Europa, anche in tempi in cui la contingenza economica planetaria suggerirebbe maggiore ponderatezza prima di imbarcarsi in spese avventate, pur di tramutare quel sogno in realtà, dicevamo, non ci si preoccupa di usare la forza inviando contro quel popolo sovrano le forze dell’ordine a caricare.
Non è questa la sede per ripercorrere le tappe della “questione meridionale” né per rievocare il nobile contributo che nel corso di questi centocinquanta anni è stato ad essa fornito da tanti illustri pensatori (e la prima stagione del pensiero meridionalista, occorre ricordarlo, fu opera di uomini del Nord Italia, onesti intellettualmente) ma tuttavia, di fronte a tale grottesca e tragica sincronia mi viene in mente quanto recentemente il governatore della regione Puglia, Nichi Vendola, ospite della trasmissione di Rai 3 condotta  da Fabio Fazio ebbe a dire. Vendola, sollecitato da una domanda del conduttore, ha affermato che mentre la questione meridionale ha una sua drammatica motivazione storica ed ha avuto il suo riferimento nel pensiero di insigni filosofi ed economisti, la questione settentrionale è invece una “volgare leggenda, una menzogna creata per scopi elettorali”. Credo che fatti come quelli che stiamo descrivendo ne siano la testimonianza più evidente, e dispiace che Mario Monti, in occasione del discorso di insediamento alla presidenza del Consiglio, abbia sentito il bisogno di dire che questo governo avrà a cuore tanto la questione settentrionale quanto quella meridionale, ponendo dunque sullo stesso piano cose che affatto non lo sono.  Ci sarebbe piaciuto sentire altro dal presidente Monti, avremmo gradito udire parole rassicuranti verso un Sud da tempo alla deriva, in preda ai suoi atavici e ingravescenti mali, eppure quasi per strano paradosso capace di esprimere proprio in questi tempi una volontà di cambiamento e delle eccellenze nuove, nei sogni più proibiti avremmo forse immaginato che a coronamento dei festeggiamenti per l’unità nazionale il presidente del Consiglio avesse per primo il coraggio, tra gli uomini politici, di denunciare apertamente i torti subìti dal Meridione, il prezzo con cui ha pagato questo processo di unificazione, le stragi che ad esso si accompagnarono, le rapine, l’operazione di rimozione indotta della memoria collettiva. Ma così non è stato. Ancora un’occasione perduta.
Nel novembre scorso mi è capitato di assistere presso l’aula magna della facoltà di Giurisprudenza di Palermo ad un incontro con lo scrittore Pino Aprile, l’autore del best-seller “Terroni”, ospite in Sicilia per un tour delle università che lo avrebbe portato anche a Catania e a Messina. Ebbene, due cose mi hanno colpito in modo particolare nel suo intervento; la prima è stato l’invito alla riflessione sul fatto che al Sud Italia dal Paleolitico al 1860 il fenomeno dell’emigrazione non era mai esistito (caso mai il Meridione era sempre stato meta ambita anche per fiorenti civiltà), mentre da quella data ad oggi gli emigranti sono stati più di venti milioni: una diaspora. La seconda affermazione è che la storia d’Italia, al dire di Aprile, da un certo punto di vista non differisce in nulla da quella degli Stati Uniti o del Giappone, dove si sono svolte guerre civili laceranti, ma che la vera differenza con quei paesi è che là si conserva la memoria e il rispetto dei vinti: negli Stati Uniti la toponomastica celebra i nomi dei generali nordisti vincitori nella guerra di secessione ma anche dei generali sudisti sconfitti; da noi no. In Giappone esistono sacrari dedicati ai samurai vinti nei quali la nazione intera, tributando i dovuti onori, ritrova le radici della propria storia e le ragioni più profonde della propria convivenza; da noi no. Da noi la storia scritta dai vincitori, quella che per esempio nulla ci racconta a scuola di Gaeta o di Pontegandolfo o di Casalduni, ha voluto apporre un sigillo definitivo alla verità storica, operando una rimozione della memoria che si spiega, al dire di Pino Aprile, con la fragile e recente identità politica del nostro paese, non sufficientemente maturo per confrontarsi con verità troppo scomode che rischierebbero di avere su di essa un effetto lacerante.
Forse alla luce di tutto ciò, quanto sta accadendo in Val di Susa e in Sicilia non appare così stravagante e incoerente, forse la grottesca parabola delle ferrovie è la vera metafora capace di assumere in sé e di spiegare le contraddizioni di un paese che ha scelto con pienezza di intenti, sin dalla sua nascita, una tipologia di sviluppo a due velocità, perseguendo poi nel corso del tempo con accanita perseveranza quell’assurdo modello.     
Raimondo Augello         

giovedì 26 gennaio 2012

Cosa pensare delle agitazioni di questi giorni in Sicilia?

“FORZA D’URTO” ? BENISSIMO. MA SENZA SBAGLIARE BERSAGLIO
Che pensare della paralisi di un’intera regione da parte di un fronte così ampio e articolato di lavoratori? Non trovo niente di invidiabile in quanti manifestano, senza tentennamenti, opposte, equivalenti, certezze: né nel solito perbenismo dei moderati (“Non è giusto infrangere la legge in maniera così plateale”) né nell’altrettanto solito compiacimento dei rivoluzionari in servizio permanente (“L’importante è fare scoppiare le contraddizioni di un sistema irreparabilmente malato”). La via dell’analisi è tortuosa, passa attraverso più dubbi di quanto non se ne incontrino in giro.
Un primo punto su cui provare a fare chiarezza riguarda il metodo di lotta. Da una parte è vero che la sordità del ceto politico è ormai così grave che solo con azioni eclatanti si riesce a penetrarla: il diritto di parola è frustrato dall’assenza del corrispettivo diritto di essere ascoltati. Ma è altrettanto vero che non si può neppure sostituire il confronto politico – nel Parlamento e nel Paese – con una sorta di rissa da saloon in cui alla fine prevalgano i più violenti. Nel corso dei gloriosi “Fasci” di fine Ottocento, i contadini occupavano le terre e fronteggiavano le armi dell’esercito regolare, ma infrangevano la legalità ai danni dei latifondisti sfruttatori, non dei conterranei già in pesanti difficoltà.
Il vero nodo problematico è allora, più che il metodo, il fine di questo movimento: dove vuole arrivare? E, prima ancora, sa da dove parte? Gli slogan, gli striscioni, le dichiarazioni volanti, le bandiere e gli stendardi danno la spiacevole impressione che, per l’ennesima volta, si voglia attribuire al Nemico esterno l’intera responsabilità dei mali interni. Che si assista alla riedizione del logoro sicilianismo “piagnone”. Gli interessi delle compagnie petrolifere, una globalizzazione affidata al mercato dall’incompetenza e dalla corruzione dei governi nazionali degli ultimi decenni, un mercato – sua volta - ossessivamente concentrato sul profitto a tutti i costi (insomma quell’insieme di fattori che causano il paradosso di benzina venduta, nei distributori siciliani, a prezzi più alti della media italiana; di pomodorini di Pachino nei supermercati palermitani solo dopo essere andati e tornati da Napoli o da Firenze; di tonni e pesci spada importati, in confezioni surgelate, dallo stesso Giappone a cui vendiamo tonni e pesci spada di migliore qualità…) sono dati oggettivi e vanno, al più presto, scardinati. Così come va incrementata la repressione di frodi internazionali consistenti nell’importazione in Sicilia di alimenti – come l’olio – che poi vengono rivenduti, a prezzi maggiorati, come prodotti tipici siciliani. Ma non solo le uniche cause del malessere siciliano.
In questi decenni quanti, tra i dimostranti, hanno supportato elettoralmente una politica regionale dissennata proprio nei settori oggi interessati? L’assessorato all’Agricoltura è stata una delle “minne” a cui privati e di cooperative hanno attinto finanziamenti fasulli, rimborsi drogati, contributi europei indebiti: abbiamo dimenticato con quali soldi molti imprenditori nostrani hanno acquistato “fuoristrada” che non hanno mai battuto una “trazzera” di campagna? Abbiamo dimenticato che il dottor Filippo Basile è stato assassinato per ordine di un impiegato dell’assessorato all’Agricoltura perché si rifiutava di favorire illegalmente un concittadino di Salvatore Cuffaro, all’epoca assessore al ramo e - come sempre - più ‘morbido’ nell’accogliere le richieste di favore? Ho in memoria una serie di nomi di funzionari dell’assessorato che – in vari periodi – mi hanno confidato di aver preferito il pensionamento anticipato all’avanzamento di grado perché “le pressioni dei politici e i tentativi di corruzione degli operatori del settore sono davvero insopportabili”. Senza contare quante centinaia di migliaia di euro vengono distribuite ogni mese a uomini e donne che risultano braccianti in quiescenza e che, nella loro vita, non hanno mai toccato una zappa.
Questi flash , del tutto inadeguati, aprono la questione decisiva: dove vuole arrivare la protesta? Si vuole la mera replica capovolta del leghismo settentrionale (quando gli allevatori della Brianza pretendevano che lo Stato pagasse le multe per le loro infrazioni)? Come non credo in nessuna Padania, così non credo in nessuna Trinacria: la Sicilia è una mela spaccata a metà e una delle due parti è marcia. Vogliamo che, sotto l’ennesimo ricatto della piazza, il governo nazionale scucia qualche elemosina o il risanamento – radicale – di un sistema che, sul momento, accontenta clienti e corrotti, ma alla lunga si risolve in un boomerang per tutti, onesti compresi? “Forza d’urto” e “Forconi” (tra i quali militano amici che stimo) lo dicano forte: i primi nemici da abbattere sono gli intermediari parassitari che, con metodi più o meno illegali, riescono a far costare 2 euro al kilo le arance o l’uva che al produttore vengono pagate a metà della metà. Con il risultato, paradossale, che centinaia di migliaia di famiglie siciliane non possono permettersi ogni giorno il lusso di acquistare la frutta, neppure per i bambini. Siamo ai nuovi Vespri siciliani? Neppure per sogno. Da infilzare non ci sono Angioini stranieri, ma cosche mafiose nostrane che fanno regolarmente fuggire dall’isola gli imprenditori che vorrebbero impiantare industrie di trasformazione dei prodotti ittici e agricoli (a partire dalle tonnellate di agrumi che vengono distrutte per tenere artificialmente alti i prezzi) . Più ampiamente, da abbattere è la mentalità in cui la politica viene ridotta a mera negoziazione di interessi individuali o, al massimo, corporativi, preoccupandosi – per restare in tema – del destino della stalla di tutti solo man mano che si esaurisce il foraggio di ognuno.
Augusto Cavadi

giovedì 19 gennaio 2012

LADRI DI LUCE (ELETTRICA) “Repubblica – Palermo” 13. 1. 2012

E’ più vicino ai cinquanta che ai quaranta, ma ha lo sguardo di un ragazzo pulito. Lo conosco, casualmente, a casa di amici comuni e mi spiega che da alcuni anni è arrivato a Palermo – da una regione del Settentrione – in missione per l’Enel. Mi incuriosisco e chiedo in che senso la Sicilia sia terra di missione. “Sicilia e Campania hanno il record italiano degli allacciamenti abusivi, senza contatore, alle reti di energia elettrica. E’ in corso una campagna straordinaria di accertamenti, di verifiche domiciliari, di ripristino della legalità”. Chiedo come mai sia scattata tanta solerzia dal momento che solo dieci anni fa, avendo segnalato al centralino dell’Enel un mio inquilino che - oltre a non versare il mensile – usufruiva abusivamente di luce, ho avuto in risposta: “Faccia una denunzia e, solo se i carabinieri ci chiederanno di intervenire, manderemo una squadra”. Mi spiega che la musica è cambiata: l’Enel non è più così tollerante con gli abusivi da quando l’Authority le chiede una multa proporzionata all’energia che si lascia rubare dai privati.
L’interlocutore occasionale mi regala squarci sulla città davvero inediti (a suo dire la situazione è altrettanto grave a Catania, mentre nell’entroterra isolano è meno clamorosa): “Sono stupito soprattutto da due fenomeni. Il primo è che scopriamo che gli allacciamenti abusivi si trovano in case di povera gente, ma anche in ville lussuose, supermercati, ristoranti, alberghi, negozi (e forse per questo è facile trovare pompe di calore accese anche con porte esterne spalancate). L’unica differenza sociale è che, una volta smascherati, i poveri ci chiedono il favore di chiudere un occhio e i ricchi ci propongono di dividere fra noi e loro la somma che si dovrebbe versare all’Enel (come se dovesse riuscirmi indifferente il bilancio dell’impresa che mi paga lo stipendio) . L’altro dato che mi stupisce è la gentilezza con cui tutti, poveri e ricchi, ci aprono le porte di casa per gli accertamenti tecnici (ovviamente sperando che non ci accorgiamo degli imbrogli): dalle mie parti, al Nord, nessuno ti fa entrare in casa e ci si limita a far accedere esclusivamente al contatore”. Gli chiedo se questa disponibilità cortese la trovano dappertutto e mi spiega che la registrano uniformemente in tutte le zone della città in cui operano. Ma specifica che non operano in tutte le zone: infatti - e spero che qualcuno possa smentire autorevolmente questa confidenza – dalla Prefettura hanno avuto, “per ragioni di ordine pubblico”, il divieto di espletare controlli in alcuni quartieri popolari (come Zen 1 e Zen 2). Dunque a Palermo (e a Catania) la legalità procederebbe a due velocità: rapida con i trasgressori ‘morbidi’, lenta - a anzi, a tempo indeterminato – con i trasgressori ‘duri’.
Tra le tante domande di cui lo tartasso a questo punto, davvero incuriosito, gli chiedo se all’Enel convenga spendere tanti soldi per mantenere in Sicilia una task force di tecnici provenienti da diverse regioni italiane. “Certo” – è la risposta illuminante – “solo nel 2010 sono stati recuperati 250 milioni di euro di evasione”. La notizia è senz’altro incoraggiante. Ma se gli utenti regolari, che da una vita pagano per intero le bollette, ricevessero un piccolo sconto sulle somme da versare bimensilmente, non sarebbe un segnale di civiltà? E, a questo punto, non si moltiplicherebbero le segnalazioni, anche anonime, di impianti illegali, in nome del “pagare tutti, pagare meno”? Altrimenti la guerra dell’Enel contro gli evasori assomiglierebbe troppo a una faccenda tra guardie e ladri che - come troppo spesso in Italia – lascia indifferenti gli spettatori. Se vogliamo un maggiore coinvolgimento popolare non possiamo chiedere di condividere le responsabilità nelle battaglie per la giustizia senza però distribuire l’eventuale bottino.
Augusto Cavadi

La libertà dal bisogno di vedersi riconoscere le proprie qualità

Su cortese richiesta della redazione della bella rivista piemontese “Viottoli”
(www.freeitaly.eu/viottoli) “Viottoli” ho inviato alcune considerazioni critiche
sulla condizione ’strutturale’ dei presbiteri cattolici.
“Viottoli”
XIV (2011), 2, pp. 37 – 38
NODI (INESTRICABILI ?) DEL SACERDOZIO CATTOLICO
La questione dell’ordinazione dei presbiteri cattolici appare, se inserita nel quadro dottrinale generale, di secondaria importanza: poco più di un affare giuridico per canonisti. In effetti può essere letta anche sul piano dei mutamenti storico-culturali e, come tale, relativizzata rispetto ai grandi interrogativi teologici. Però, se approfondita, essa apre domande molto più rilevanti: in qualche caso abissali.
Non si tratta infatti solo di notare come, nel Secondo Testamento, Gesù, che non era prete, non ha ‘istituito’ nessun sacramento dell’ordine; né, tanto meno, che una eventuale investitura “dall’alto” riguardasse la funzione sociale di alcuni discepoli, non certo la loro costituzione antropologica (come arriverà a sostenere la dottrina medievale del “carattere” come impronta ontologica). Sono tutte tematiche che i frequentatori degli studi biblici conoscono a mena dito. Un po’ più intrigante la problematica del ministero alle donne: la loro esclusione (o forse sarebbe più esatto dire: la loro presenza statisticamente minoritaria) fra quanti presiedevano le liturgie nei primi secoli ha indotto le chiese cristiane (sino a un secolo fa tutte, sino ad oggi le più consistenti numericamente) a trasformare un dato di fatto in un criterio di principio. Correggere questa svista non è stato facile (nelle chiese in cui è stata corretta) né è facile (nelle chiese in cui permane) perché si tratta di rivedere la concezione della donna rispetto al maschio, rispetto al sesso e rispetto al sacro. Insomma si tratta di operare una rivoluzione mentale coraggiosa, profonda.
Ricordo un mio incontro fugace, nella sacrestia dell’Istituto biblico di Roma, al termine di una intima celebrazione eucaristica di padre Lyonnet. Approfittai dell’occasione di essergli presentato da una mia amica palermitana che seguiva i suoi corsi e gli chiesi cosa pensasse dell’ordinazione delle donne: l’anziano biblista mi rispose, sornione, di non essere d’accordo. Infatti - aggiunse subito – non sarebbe il caso di estendere alle donne un’istituzione che andrebbe ripensata anche per gli uomini. La domanda più radicale, dunque, non investe le modalità e le condizioni di ordinazione dei presbiteri, bensì il senso ultimo di tale ordinazione: la comunità dei discepoli ha bisogno di essere guidata da pastori (maschi o femmine, celibi o sposati, eterosessuali o omosessuali…)?
Francamente non ritengo che la risposta sia semplice. Che un gruppo abbia bisogno di regole e di custodi autorevoli delle regole è indubbio: solo chi scambia il proprio nobilissimo desiderio di uguaglianza universale con la brutale realtà effettiva degli uomini può proclamarsi anarchico. E anarchico anche in ambito ecclesiale. D’altra parte è altrettanto vero che, non appena qualcuno viene rivestito di autorità rispetto ai simili, fosse anche in virtù di carismi effettivi, si affeziona al ruolo in maniera patologica: la più rara delle qualità è forse proprio la libertà dal bisogno di vedersi riconoscere le proprie qualità.
In questa stretta fra l’esigenza oggettiva di un ministero dell’unità (non dell’uniformità) e il rischio di trasformare il servizio in privilegio, il compito funzionale in ruolo istituzionale, non è agevole trovare vie d’uscita convincenti e praticabili. Tre possibili tasselli, fra altri che si potrebbero individuare con la riflessione e l’esperienza, potrebbero essere la decisa delimitazione dei poteri presbiteriali; la disencitivazione economica; la temporaneità dell’incarico. Queste tre condizioni caratterizzano già – per quanto ne so – il ministero in alcune “chiese sorelle” (Sua Santità Benedetto XVI mi perdoni la formula blasfema), quali le chiese valdese e metodista nelle quali il pastore condivide, laico tra laici, i suoi poteri di governo con altre figure di responsabili della comunità (il consiglio di chiesa); guadagna uno stipendio mensile facilmente superabile da un membro di chiesa che si dedichi ad attività professionali mondane; non rimane a guida di una chiesa più di un certo arco di tempo, dopo il quale deve cambiare sede e può persino cambiare (temporaneamente o definitivamente) mestiere, dedicandosi alla direzione di un centro sociale o all’insegnamento o al giornalismo.
Questi, e simili, accorgimenti disciplinari non potranno comunque sciogliere mai il paradosso genetico del cristianesimo che nasce “movimento” e cresce “istituzione”. Hegel lo aveva già focalizzato: il cristianesimo zampilla come amore; se fosse rimasto fedele alla dinamicità ‘liquida’ originaria non sarebbe sopravvissuto per secoli; è sopravvissuto perché il contagio iniziale da cuore a cuore, da persona a persona, si è poi cristallizzato in strutture, norme e ordinamenti. L’esperienza originaria – fortemente profetica – è stata preservata, ma anche deformata, dalla canalizzazione organizzativa successiva. Forse non c’è alternativa: nessuna comunità accetti di essere coordinata, spronata, moderata da un “anziano” che, privo di qualsiasi ispirazione profetica, si sia sclerotizzato nel ruolo di “funzionario di Dio” (Drewermann).
Augusto Cavadi